Aversa. Francesco Mangiacapra: “Una manifestazione antifascista con metodi fascisti. Ecco perché dico no al Gay Pride”

“Il Gay Pride di Aversa si inserisce in un filone di manifestazioni politiche che poco hanno a che fare con la sollecitazione di diritti civili. Uno dei motivi che da qualche anno mi ha spinto a non aderirvi più è l’imposizione di Bella Ciao nel mezzo della parata. Che il contrasto all’omofobia e, in generale, al bullismo e alla violenza siano una priorità, non c’è ombra di dubbio. Il dubbio, legittimo, può esserci, invece, su come siano impostate queste manifestazioni e sugli intenti con cui vengono organizzate. Nonostante la comunità gay rifiuti di essere identificata come una lobby, ne incarna sempre più a pieno titolo le peculiarità: le associazioni LGBT italiane sono ormai pacificamente politicizzate. Esiste perfino il Partito Gay“. E’ il commento, tramite nota stampa, di Francesco Mangiacapra l’attivista ed escort napoletano autore del controverso dossier sui preti gay – in vista dell’AversaPride che si terrà sabato 25 giugno ad Aversa.

“Queste organizzazioni partono da una cultura del piagnisteo, che attribuisce ogni frustrazione delle persone a presunti traumi inflitti dalla società. Una cultura che collega ogni insuccesso del singolo alle discriminazioni subite storicamente in quanto membro di una minoranza. Il problema è la narrativa sociale che spesso la comunità gay veicola. Si è alimentata una mentalità basata sull’esasperazione dei diritti, proprio da parte delle minoranze che si sono viste incoraggiate a trasformare il loro svantaggio in un vantaggio, a brandirlo come un’arma, a pretendere che gli altri, tutti gli altri, i “fortunati”, si inchinino davanti a loro, si proclamino colpevoli o, comunque, si sentano in difetto, in debito e dunque in obbligo di “risarcirle” indefinitamente. La realtà è che, per fortuna, viviamo in una società che già professa apertamente la sua ostilità al razzismo, al sessismo e alle discriminazioni ma il grande limite di cui soffre la comunità LGBT è la pretesa di voler a identificare tutte le persone omosessuali come elettori di sinistra”.

“C’è invece chi, come il sottoscritto, si accontenta di vivere serenamente la propria diversità o meglio, la propria individualità, senza tentare ossessivamente di imporla al prossimo e senza pretendere di trasformare l’omosessualità in omosessualismo, invocando la solidarietà istintiva di altri consimili. A quanto pare, però, la propaganda progressista vorrebbe imporre il pensiero unico secondo il quale è vietato essere gay se non voti a sinistra, perché se nasci gay hai un debito con la sinistra, un peccato originale che non puoi scontare. L’ideologia buonista e progressista sta favorendo un sistema in cui la vittima è ormai un’ambita professione e i mass media la principale agenzia di manipolazione e di stravolgimento. Ogni musulmano, ogni gay, ogni donna vengono riconosciuti automaticamente come vittime solo in quanto facenti parte di una categoria (privilegiata)”.

“Il vittimismo innescato da questa manifestazione è paradossalmente la più violenta forma di disprezzo dei diversi perché si rifiuta di riconoscerli come già integrati nella società a pieno diritto, preferendo considerarli inferiori per soddisfare una smania narcisistica. Lo status politico di vittima assicura a chi riesce a ottenerlo una specie di passaporto diplomatico di cittadino “straordinario”, non necessariamente collegato a situazioni di minaccia o reale oppressione. Uno status che comporta, in quanto tale, una serie di benefici, non solo economici, ma anche legali e che di fatto rende le persone diseguali di fronte alla legge. Il cerchio si chiude e chi non vuole guai è costretto ad autocensurarsi e a usare le parole della neolingua. Ci hanno provato i regimi totalitari a esercitare l’epurazione linguistica, e ci provano oggi a esercitare la manipolazione, i sacerdoti del linguaggio politically correct quando elaborano un’antilingua, tecnica, eufemistica, fatta di sigle incomprensibili: l’acronimo GLBT, abbreviazione di “gay, lesbo, bisex, trans” è stato negli anni oggetto di rivisitazioni ossessive. Lo spirito rissoso delle lesbo-femministe ha spinto le lesbiche (sempre più spesso assise a capo delle associazioni gay) a pretendere di far passare la L di lesbiche in cima all’acronimo, diventato quindi LGBT. Non paghe di ciò, ogni anno hanno preso ad aggiungere nuove lettere, quasi a diventare un codice fiscale. Siamo arrivati attualmente a LGBTQIA+ che oltre a lesbo, gay, bisex e trans non si fa mancare le etichette queer, intersex e asex, con un “+” in coda a presagio che, nel frattempo, qualcuno sia al lavoro per aggiungere qualche altra lettera. Neppure la definizione di Gay Pride è salva. Si esige di riferirsi alla manifestazione con il più indefinito e confusionario termine “Pride“, per non ledere la suscettibilità delle lesbo-femministe. “.

“Perché accade ciò? La filosofia Gender esige la creazione di nuove nomenclature, basate sulla ricerca scrupolosa di punti di distinzione allo scopo di creare una comunità intorno alla stessa diversità. La manipolazione ideologica arriva all’adulterazione della realtà quando nega l’esistenza dei sessi e pretende di introdurre la nuova distinzione basata sulla presunta fluidità del genere (“gender fluid”), categoria socialmente costruita per assecondare le ideologie delle frange femministe fallofobiche e gay più estreme. Paranoia, inquisizione, polizia del pensiero e del linguaggio. L’ideologia Gender si fa censura e pretende di imporre formule linguistiche e codici di comportamento paranoici che poi cerca di esportare nel mondo della comunicazione, dello spettacolo e della politica: chi non si adatta è emarginato da tali circuiti”.

“La natura di questa manifestazione è il grave sintomo del fatto che i gay continuano a volersi autoghettizzare, autoconfinare, automassificare: tra poco per prenderlo in culo si avrà bisogno della tessera di partito. Richiedono (giustamente) diritti e libertà ma poi sui scendono in piazza inneggiando alla violenza contro personalità dogmaticamente assunte come omofobe e per farlo utilizzano slogan che loro stessi, in altri contesti, riterrebbero discriminatori. Poco importa se si comportano esattamente mettendo in pratica, quegli stessi metodi, atteggiamenti e modi di pensare fascisti, che loro stessi si propongono di contrastare: lo squadrismo, l’ostracismo, la persecuzione, la messa al bando, il boicottaggio, la propaganda. Allora l’impressione è che il senso di questa parata fatta di trans con le tette al vento, di gay âgée con manifesti blasfemi, di ragazzini minorenni con i capelli blu che insultano Salvini e la Meloni sia una grande battaglia di pensiero combattuta per finalità anche condivisibili, ma con armi del tutto inadatte. Una guerra mondiale fatta con i soldatini. Quasi come se non si voglia davvero vincere, perché le conseguenze, in tal caso, sarebbero troppo scomode, ma solo attribuirsi il merito di stare dalla parte giusta”.

 

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