La tragedia del Mottarone, un abbraccio durato 14 secondi

Il 23 maggio si conferma data nefasta per il nostro Paese. Era domenica, anche allora, nel 1992 quando la mafia fece sprofondare un tratto dell’autostrada A29, nei pressi di Capaci, lasciando tra i rottami e le macerie cinque morti e ventitré feriti. Questa volta la mafia non centra. Si tratta di un incidente, non banale, ma nefasto e che avrà il giusto aggettivo solo a indagini concluse. Comunque non doveva succedere. È quello che gridano tutti, perché è costato la vita a quattordici di noi, coniugi con figli, nonni, coppie felici, promessi sposi. L’immagine di ciò che siamo e il sogno di quel che vogliamo essere sono finiti parzialmente accartocciati tra le lamiere, dopo essere precipitati e rotolati tra gli alberi. Potrebbe essere questa una sintesi fredda e raggelante. O forse possiamo raccontare altro?

Una domenica all’aria aperta, finalmente. Il sole e la brezza primaverile annunciano una giornata spensierata tra i boschi delle montagne piemontesi. Papà e mamma mi hanno detto che da lassù vedrò il Lago Maggiore, toccherò il cielo con un dito. Non vedo l’ora. Il mio fratellino è troppo piccolo per avvertire la mia eccitazione. Scalerò le montagne. Andiamo. E così durante il viaggio continuo a domandare quando arriviamo. Meno di cento chilometri. Un’ora e mezza che pare un’eternità. Ascoltiamo la musica, mentre i nonni raccontano di Tel Aviv e delle bombe degli ultimi giorni. Non comprendo di cosa parlano. Io vivo a Milano, e ieri c’era la festa scudetto dell’Inter.

Finalmente ci siamo. Parcheggiamo. Davanti a noi l’Isola Bella. Perché non facciamo un giro al lago? È enorme, sembra il mare. “Guarda dietro, Eitan. Quello è il Mottarone. Saliremo a circa 1500 metri”. Come facciamo ad arrivarci? “Vedi quelle cabine appese al filo? Adesso entreremo in una di quelle. Sarà come andare nel pullman o nel treno. In meno di venti minuti, raggiungeremo la vetta. Da lassù potremo ammirare la Pianura Padana, le cime delle Alpi, il Monte Rosa e i sette Laghi. Non lo dimenticherai mai più”. Ci dirigiamo così verso la funivia. Una breve e ordinata fila e arriva il momento di salire. Insieme a noi e i nonni altre persone. C’è un altro bambino come me, Mattia, ha la mia stessa età. Mamma tiene Tom, il mio fratellino. Io sto vicino a papà.

Si chiudono le porte e la cabina comincia a muoversi, dondolando e sollevandoci pian piano dal suolo. Mi avvicino al vetro, non so dove guardare. Vedo gli alberi finire sotto e diventare sempre più piccoli. Dall’altro lato il lago si allontana, mentre riesco a vedere in lontananza l’altra sponda. Cavalli al pascolo. Qualcuno manda un wapp, altri si fanno un selfie. Io non vedo l’ora di uscire e correre all’aperto. Quanto manca? “Qualche minuto, ci siamo quasi. Si intravede la stazione. Tra poco scendiamo”. Improvvisamente un rumore assordante. Cos’è stato? Urla, grida di paura e angoscia. Mamma stringe Tom. Papà mi afferra, mi alza e mi stringe sul petto. I nonni si abbracciano. Tutti si stringono. La cabina dondola energicamente. Un sibilo enorme, pochi secondi, le orecchie si otturano, chiudo gli occhi. Cominciamo a roteare. Mi sento immerso in un frullatore. Lamenti, pianto. Poi silenzio, buio. Sono morto. Sono vivo.

Quella che doveva essere una giornata di divertimento si è trasformata in incubo. Il sole splendente è tramontato di colpo su cinque famiglie, trascinando i loro familiari e la comunità locale in un incubo terribile. Distrutti per sempre sogni e progetti, annientata la voglia di vivere, sventrate le coccole e gli affetti più forti. La morte ora domina la montagna, mentre arrivano i primi soccorsi. Tutti ci siamo immaginati in quel posto. Chi ha familiarità con la montagna e di funivie ne ha abitate tante, ha perso un pezzo del proprio cuore domenica. Troppo banale dire che la vita di ciascuno è appesa a un filo. Eppure è così. Il punto è che ogni filo merita cura e manutenzione. Se siamo superficiali, la tragedia è ovunque. E allora?

Cosa buona e saggia è restare in silenzio, perché il dolore grida forte, la disperazione echeggia tra gli alberi, ed io mi inchino alla vita, quando finisce e quando ricomincia. Non invoco il fato, non scomodo Colui che siede sul trono più alto. Da quella cabina è stata sbalzata fino ai nostri piedi la vita di Eitan, soltanto la sua, per dirci che la morte non vince sempre e su tutto, che la fede può sopravvivere allo sconforto più grande, che la speranza reclama il nostro coraggio, perché un bambino ha bisogno di noi, ora. Altra speranza infonde il coraggio ad alcuni di salire su un barcone e affrontare le acque del mare, le cui onde spesso da alleate si mutano in nemiche, assalendo e ingoiando corpicini enormi, per poi riconsegnarli, qualche volta, alla spiaggia più vicina. Non era una gita fuoriporta e su quel barcone noi non siamo saliti. Nessun abbraccio è stato sufficientemente protettivo.

Eitan è sopravvissuto tra le braccia del padre, che è riuscito a preservarlo in quel gesto così spontaneo e irripetibile, stringendolo al suo petto, sul suo cuore, soltanto per 14 secondi, gli ultimi. Poi ha smesso di battere, in un tonfo profondo. Perché solo lui? Nelle origini ebraiche del nome del bambino i legami con il mondo della Bibbia. Infatti, nell’Antico Testamento vi sono diversi personaggi con questo nome, e tra essi spicca un uomo la cui saggezza è comparata a quella del re Salomone. Quando si dice il futuro nel nome. Eitan (o Ethan) vuol dire “robusto, forte”, ed anche “durevole, perenne”; riferito a una persona può essere interpretato come “dalla lunga vita”. Altri bambini, anche oggi, non ce l’hanno fatta. La morte è maleducata, non chiede mai il permesso. Si piomba, s’abbatte. Ci cambia, sì. Ma non vince. Lo dice l’emozione che abbiamo provato, le lacrime che abbiamo versato, la preghiera che abbiamo elevato.

di Elpidio Pezzella

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